Resistenza a pubblico ufficiale: definizione
L'articolo 337 del Codice Penale specifica che commette il reato di resistenza
a pubblico ufficiale la persona che si oppone a un pubblico ufficiale
minacciandolo o usandogli violenza; il reato si configura anche nel caso in cui
la vittima sia un incaricato di pubblico servizio in servizio o intenta a
compiere un atto di ufficio o una persona che stia prestando assistenza a un
pubblico ufficiale. La pena prevista è la reclusione, da un minimo di sei mesi
a un massimo di cinque anni.
La resistenza a pubblico ufficiale riguarda anche gli oggetti?
Secondo la Cassazione, no, come dimostrato dalla sentenza
numero 6069 della VI sezione del 13 gennaio del 2015, relativa al caso di una
persona che, per evitare di entrare in un'auto di servizio che avrebbe dovuto
trasportarla in un commissariato di polizia, aveva puntato le mani e i piedi
sull'auto stessa. In questa circostanza era stata riscontrata semplicemente una
mancanza di collaborazione, che di per sé non era sufficiente a integrare il
reato. Per la Cassazione, nello specifico, il reato di resistenza può essere
integrato dalla violenza sugli oggetti, se questa ha lo scopo di evitare che il
pubblico ufficiale compia un atto doveroso, ma è necessario, affinché ciò
accada, che vi sia una aggressione volontaria dei beni che abbia l'effetto di
condizionare direttamente l'azione degli agenti. In sostanza, la natura
violenta dell'azione è da escludersi se non c'è una aggressione volontaria.
1. La minaccia e la violenza sono elementi indispensabili della resistenza a pubblico ufficiale?
Sì: la locuzione "violenza o minaccia" che viene usata
nell'articolo del Codice Penale di riferimento rappresenta un
elemento indispensabile della fattispecie, poiché è proprio attraverso la
violenza o la minaccia che la volontà del soggetto pubblico viene coartata.
Occorre distinguere, in ogni caso, la resistenza dalla violenza a pubblico
ufficiale, normata dall'articolo precedente, il 336, che presuppone che la
violenza o minaccia preceda il compimento dell'atto del pubblico ufficiale
(mentre, nel caso della resistenza, l'evento è contemporaneo).
2. Gli atti di autolesionismo possono rientrare nella casistica della resistenza a pubblico ufficiale?
La sentenza numero 650 del 24 aprile del 2014 della sezione penale del
Tribunale di Asti stabilisce di no: una condotta autolesionistica
non va ritenuta violenta nei confronti del pubblico ufficiale, visto che è
orientata verso la propria persona. La sentenza in questione riguarda il caso
di un imputato che, mentre veniva tradotto presso il Cie di Torino, aveva
tirato fuori una lametta dalla propria bocca e aveva cominciato a ferirsi sul
braccio sinistro. Gli agenti erano subito intervenuti per evitare che tali
gesti potessero degenerare e l'imputato era stato ammanettato, ma aveva opposto
una resistenza vigorosa cercando di evitare la
"morsa" degli agenti stessi. Per i giudici che si erano espressi,
gesti di questo tipo possono coartare i pubblici ufficiali, e anzi non di rado
vengono attuati proprio con questo scopo, ma ciò non basta perché si possa
parlare di resistenza a pubblico ufficiale: affinché si rientri nella
fattispecie, infatti, è necessario essere in presenza di una condotta violenta,
a prescindere dallo scopo di chi la mette in atto. Va sottolineato, comunque,
che la minaccia di togliersi la vita, nel momento in cui intralcia la pubblica
funzione, può comunque presupporre la condotta di violenza o minaccia a
pubblico ufficiale, come rilevato dalla sentenza 10878 del 2009 della VI
sezione della Cassazione.