Ricorso abusivo al credito: definizione
Con il ricorso abusivo al credito, previsto dall'articolo 218 r.d.
16.3.1942 n. 267, si punisce l'imprenditore che gestisce una attività
commerciale che, nascondendo una situazione di difficoltà economica, decide di
ricorrere al credito o di continuare a farlo: per questo reato è prevista la
reclusione fino a due anni. Inoltre, la condanna implica che la persona punita
sia inabilitata per un massimo di tre anni all'esercizio di un'impresa
commerciale e non possa esercitare presso qualunque impresa uffici direttivi.
La pena viene aumentata nel caso in cui il fatto sia stato commesso più volte
dall'imprenditore. In più, è previsto il cumulo delle pene in presenza
di concorso di reati: quando, cioè, i fatti ripetuti integrano fattispecie
differenti tra quelle specificate dall'articolo 216, dall'articolo 217 o
dall'articolo 218 della legge fallimentare.
Perché è stato istituito il reato di ricorso abusivo al credito?
Il legislatore, in pratica, con questa norma ha inteso tutelare chi
si trovi a contrattare con un'impresa in crisi economica. La lettera della
norma esige una condizione di dissesto, e solo una parte della dottrina
considera il fallimento dell'imprenditore il presupposto per cui la
disposizione sia applicata: in realtà, è esattamente la condizione di dissesto
quella che fa scaturire la differenza tra la bancarotta semplice e il
ricorso abusivo al credito, che contempla una condotta per la quale il dissesto
stesso viene dissimulato o celato, anche con una semplice reticenza.
Ovviamente, nell'eventualità in cui la dissimulazione comporti dei raggiri o
degli artifici fraudolenti, entra in gioco il reato (più grave) di truffa.
1. Perché è importante il ricorso abusivo al credito?
Sin dall'inizio dell'era moderna il ricorso abusivo al credito ha
rappresentato uno dei punti fondamentali del diritto penale dell'economia. La
sua storia, per altro, è molto antica, se è vero che la fattispecie faceva già
parte delle condotte probanti del fallimento colpevole nel codice di commercio
del 1807. In effetti, chi esercita una attività di impresa e assume un debito
senza essere nelle condizioni patrimoniali e finanziarie per poterlo fare, e
quindi per poterlo saldare in futuro, si rende protagonista di una condotta
degna di biasimo e perniciosa da molteplici punti di vista. A essere a rischio,
infatti, non è unicamente il patrimonio del concedente che deve sostenere il
costo dell'inadempimento, in quanto sono a repentaglio anche gli interessi dei
creditori precedenti, che in caso di insolvenza dovranno distribuire il
patrimonio dell'impresa fallita con più soggetti, e quindi avranno diritto a
una quota minore. D'altro canto, il credito che viene ottenuto in modo abusivo
ha l'effetto di alterare, in un certo senso, l'attività economica del debitore
"dopandola" e incrementando la possibilità che siano contratti
ulteriori debiti.
2. Perché c'è chi ritiene che la fisionomia attuale di questa fattispecie sia controversa?
L'articolo 32 l. 262/2005 ha tratteggiato una nuova fisionomia del ricorso
abusivo al credito, stabilendo che l'articolo 218 della legge fallimentare può
essere applicato anche al di fuori delle circostanze a cui si fa riferimento
negli articoli precedenti. Viene chiamata in causa, secondo alcuni
commentatori, la questione già citata in precedenza relativa alla volontà del
legislatore di fare in modo che la dichiarazione di fallimento non sia
direttamente connessa con l'area della pena. Il tema, tuttavia, è ancora oggi
ampiamente dibattuto, e c'è chi continua a ritenere la dichiarazione di
fallimento il limite da cui dipende tale fattispecie.