
In base alla sentenza della Corte di Cassazione n. 19847 del 20 settembre 2010, la cessazione dalla carica di consigliere di amministrazione di società, avvenuta a seguito della fusione per incorporazione di detta società in altra società, non configura un’ipotesi di revoca tacita avvenuta in assenza di giusta causa e, pertanto, non conferisce all’amministratore cessato il diritto di chiedere il risarcimento dei danni.
Secondo la Suprema Corte, la cessazione dalla carica dell’amministratore, nell’ipotesi in esame, non può essere ricondotta ad un’autonoma scelta dei soci nel senso della revoca del consigliere, rappresentando invece una conseguenza obbligata del fenomeno stesso della fusione per incorporazione così come delineato dalla normativa vigente.
Prima della riforma del diritto societario, si riteneva che il fenomeno consistesse in una vicenda estintiva della società incorporata, che cessava di esistere con conseguente venir meno di tutti i suoi organi sociali.
Dopo la riforma, si è affermato in giurisprudenza il principio secondo cui la fusione per incorporazione non determina l’estinzione della società incorporata, ma attua l’integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione, le quali vanno incontro ad una vicenda evolutiva ma conservano la propria identità, pur con un assetto organizzativo radicalmente diverso. In entrambe le ipotesi, tuttavia, l’organismo che residua a seguito della fusione è diverso dal precedente e ha un assetto organizzativo ed organi sociali che si sostituiscono a quelli pregressi.
Ne consegue che la cessazione dalla carica del consigliere è una conseguenza automatica dell’incorporazione e non configura, quindi, un’ipotesi di revoca tacita da parte dell’assemblea avvenuta in assenza di giusta causa, con la conseguenza che il consigliere in questione non matura il diritto a percepire alcun importo a titolo di risarcimento del danno.