Violenza sessuale: definizione
Secondo l’art. 609 bis comma 1 del codice penale (formalmente rubricato “violenza sessuale”) “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o a subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni”.
Con l’entrata in vigore della legge n. 66 del 15 febbraio 1996, le vecchie fattispecie di violenza carnale e di atti di libidine violenti (che erano previste dagli abrogati artt. 519-521 c.p.) sono state ridefinite nell’unico concetto di “violenza sessuale” e collocate -per una scelta di principio del legislatore- tra i “delitti contro la libertà personale”.
Il delitto previsto dall’art. 609 bis c.p. è quindi integrato da ogni costrizione a subire un atto sessuale, che va inteso non soltanto come congiunzione carnale (che implica, pertanto, penetrazione) ma anche come atto di natura oggettivamente sessuale (tra i quali i toccamenti, la palpazione, la masturbazione ma anche, in taluni casi, il bacio sulle labbra), nel senso che tali comportamenti dovranno essere valutati per la loro attitudine ad offendere la libertà sessuale della persona offesa.
Secondo una diffusa interpretazione gli atti sessuali presi in considerazione dal codice penale non sarebbero solo quelli che involgono la sfera propriamente genitale, ma anche quelli che riguardano le zone del corpo considerate erogene.
Dal punto di vista dell’elemento soggettivo, il reato è a dolo generico essendo sufficiente la sola coscienza e volontà di costringere la vittima a subire atti sessuali mediante violenza o minaccia: ne deriva che è irrilevante il fine dell’agente.
Il caso previsto dal secondo comma
Peraltro la complessiva disciplina della “violenza sessuale” non si esaurisce nella previsione e conseguente repressione della costrizione all’atto sessuale prevista dall’art. 609 bis comma 1 c.p. perché il reato viene commesso anche tramite due tipi di “induzione” ritenute rilevanti dal legislatore nel secondo comma dell’art. 609bis c.p..
Occorre intendersi sul significato di induzione (che di norma andrebbe intesa come attività di pressione psicologica o più semplicemente, di persuasione) nello specifico ambito dell’art. 609 bis c.p. .
Infatti il delitto (ulteriore e diverso da quello descritto al primo comma) è commesso da chi “induce” taluno a compiere o subire atti sessuali, purchè ciò avvenga attraverso due (e solo due) modalità descritte dalla stessa norma (nel comma 2): 1) l’autore del fatto deve avere abusato delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della vittima; 2) deve essersi sostituito ad altra persona traendo così in inganno la persona offesa.
In tali casi, si noti, il consenso della vittima è viziato da una oggettiva situazione di “minorata difesa” o dall’inganno perpetrato dal soggetto agente.
Gli elementi comuni
La pena è assai elevata (da 5 a 10 anni per la fattispecie-base) e, per le vicende di basso profilo delinquenziale (si pensi alla “manomorta”, al bacio, alle palpazioni, a taluni approcci maleducati), sembra palesemente sproporzionata.
Unico elemento d’equilibrio è nell’ultimo comma dell’art. 609bis c.p. ove si prevede che: “nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi” (sicchè il minimo della pena sarà pur sempre di un anno e otto mesi di reclusione).
Per contro, il reato è caratterizzato da una serie di aggravanti specifiche (art. 609ter c.p.): la pena è della reclusione da sei a dodici anni se il fatto descritto nell’art. 609bis c.p. è commesso - nei confronti di persona minore di 14 anni; - nei confronti di persona minore di 16 anni quando l’autore del fatto sia l’ascendente, il genitore (anche adottivo) o il tutore; - all’interno o nelle vicinanze della scuola frequentata dalla persona offesa; - con l’uso di armi, alcool o sostanze stupefacenti; - da persona travisata o che simuli la qualità di pubblico ufficiale; - su persona sottoposta a limitazioni della libertà personale.
La più incisiva delle circostanze aggravanti (per cui la reclusione è da sette a quattordici anni) opera nel caso in cui la vittima non abbia ancora compiuto 10 anni.
La scelta repressiva del legislatore nei confronti di questo tipo di reati è resa particolarmente evidente da due previsioni introdotte nel codice di procedura penale. In primo luogo, l’imputato di violenza sessuale non può ottenere una sentenza di patteggiamento (art. 444 ss. c.p.p.), “qualora la pena superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria” (soluzione impossibile con una pena minima di 5 anni di reclusione per la fattispecie-base).
Inoltre, il condannato per il delitto previsto dall’art. 609bis c.p. è fortemente ostacolato anche nella possibilità di ottenere misure alternative alla detenzione.
Egli infatti non può beneficiare della sospensione dell’esecuzione della condanna (si veda art. 656 co. 9 lett. a che rinvia all’art. 4bis legge ordinamento penitenziario), sospensione comunemente prevista dal codice di procedura penale in tutti i casi in cui la pena detentiva da eseguire non sia superiore a tre anni: quanto sopra significa che il condannato per violenza sessuale dovrà necessariamente subire l’esecuzione (con traduzione, dunque, in carcere) prima di potere formulare istanze per scontare la pena tramite una delle note misure alternative (affidamento in prova e detenzione domiciliare).
La tutela della persona offesa dal reato previsto dall’art. 609bis c.p. e, in generale, dai reati contro la libertà sessuale, è dunque particolarmente intensa. Ciò si riflette anche sul piano della prova, dal momento che la giurisprudenza è costante nell’ammettere che la sentenza di condanna possa essere fondata sulla sola testimonianza della parte offesa: non v’è dubbio che l’estrema durezza del legislatore nei confronti dell’autore (o anche solo del supposto autore) di questo genere di reati non è del tutto compensata dalla presenza di garanzie per l’imputato proprio nel più delicato settore della ricostruzione del fatto e della valutazione della responsabilità.