
La terza sezione penale ha quindi dato torto a un contribuente finito nel mirino della Guardia di finanza nell'ambito di una vasta operazione contro le frodi fiscali. Le autorità avevano sequestrato 104 mila euro a titolo di profitto del reato. Lui si era difeso sostenendo che si era accordato con l'amministrazione finanziaria per restituire a rate il debito. Ma questo dato è sembrato insufficiente alla Cassazione che, segnando una brusca frenata rispetto a una decisione delle Sezioni unite penali del 2009 (sentenza n. 38691) che aveva ordinato il dissequestro dei beni del contribuente che aveva restituito il debito.
Questo ripensamento, hanno spiegato gli Ermellini, si è avuto perché anche le sanzioni e gli interessi fanno parte del profitto del reato. Infatti, si legge in sentenza, «vero è che comunemente nel delitti tributari il profitto viene ricondotto all'ammontare dell'imposta evasa con ovvio riferimento ad un importo determinato in conseguenza di specifici accertamenti tributari: ma esso ingloba oltre l'ammontare dell'imposta evasa propriamente detta, anche le sanzioni e altre eventuali somme dovute (art. 7 comma 1 del dl 218/97), il che conduce a una diversa quantificazione del profitto da intendersi come vero e proprio risparmio di spesa che non esclude vantaggi ulteriori riflessi per il soggetto evasore». Per non parlare poi delle garanzie che l'amministrazione finanziaria non ha su una restituzione a rate.