
Nel panorama delle molte pronunzie applicative sul nuovo rito introdotto dalla riforma Fornero, è d’uopo segnalare le ordinanze del Trib. di Bologna, (emesse da Giudici diversi), dello scorso 15 ottobre e, più recentemente, quella del 19 novembre, rispettivamente in materia di licenziamento disciplinare e licenziamento c.d. economico, conclusesi entrambe con un ordine di reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore licenziato: pronunce che sembrano negare la ratio delle modifiche di cui al novellato art. 18, ovverosia quella di rendere veramente residuale la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro, portando la mera sanzione del risarcimento del danno come regola delle conseguenze di quasi tutte le fattispecie di licenziamenti illegittimi, ad esclusione di quelli discriminatori.
Al contrario con queste prime pronunzie i Giudici sembrano applicare il novellato art. 18 dello statuto in realtà come se nulla fosse cambiato, ed anzi – come accaduto nella seconda pronunzia di cui si dà conto – con una forzatura finalizzata alla reintegrazione del lavoratore licenziato.
Ma andiamo con ordine.
Con la prima
ordinanza il Giudice di Bologna, interpretando le modifiche apportate all’art.
18 e, in particolare, applicando il regime sanzionatorio di cui al comma 4, ha
ordinato la reintegrazione del lavoratore licenziato – nel caso di specie, si
trattava di un licenziamento intimato dopo il 18 luglio 2012, data di entrata
in vigore della riforma - pur in presenza della sussistenza materiale del fatto
contestato; fatto che - secondo il Giudice - non è stato, tuttavia, idoneo ad
integrare il concetto di giusta causa di licenziamento.
In particolare, il Giudice bolognese, accogliendo la tesi sostenuta dalla
difesa del lavoratore, ha sostenuto che la norma in questione, parlando di
fatto faccia necessariamente riferimento al cd. "fatto giuridico"
inteso come il fatto globalmente accertato, nell'unicum della sua componente oggettiva e nella
sua componente inerente l'elemento soggettivo, tale da integrare – ovvero da escludere
come nel caso di specie – la sussistenza della giusta causa invocata
dalla azienda (si trattava di un comportamento del dipendente particolarmente
offensivo e poco collaborante nei confronti del proprio responsabile diretto).
In sostanza, il giudice Bolognese ha ritenuto che il fatto/comportamento
denunciato dall’azienda – pure sussistente - non fosse così “grave” da
integrare l’ipotesi della giusta causa (così applicando l’art. 18 nella sua
vecchia formulazione), applicando tuttavia in luogo della eventuale indennità
cui avrebbe avuto diritto il lavoratore a norma del nuovo art. 18, la sanzione
della reintegrazione prevista invece per il caso di licenziamento
discriminatorio ovvero di “insussistenza del fatto”.
È evidente che, qualora questa interpretazione accolta dal Trib. di Bologna fosse seguita da altri giudici, sarebbe da chiedersi allora che cosa è cambiato rispetto al passato. Infatti, verrebbe svuotato di efficacia l’intervento del legislatore sulle modificate di cui all’art. 18, anche alla luce degli obiettivi posti nella lettera della BCE del 5 agosto 2011.
L’altra
ordinanza emessa dallo stesso Tribunale ma da Giudice diverso, ha ordinato
invece la reintegrazione nel posto di lavoro di una dipendente licenziata
per giustificato motivo oggettivo, c.d. licenziamento economico.
In particolare, nel caso di specie, la lavoratrice part time, impugnando
il licenziamento intimato in data 25 luglio 2012, lamentava la violazione
dell’art. 5 D.lgs. n. 61/2000 a tutela del lavoro part-time, secondo cui il
rifiuto di un lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro da tempo
parziale a tempo pieno (e viceversa) non costituisce giustificato motivo di
licenziamento: da qui la richiesta reintegrazione nel posto di lavoro ai
sensi dell’art. 18 L. 300/70, prevista per i licenziamenti discriminatori e per
quelli determinati da “motivo illecito”.
Il Giudice bolognese ha accolto integralmente il ricorso, dando atto che “la
manifesta violazione di tale norma – integrata a suo dire dalla condotta della
azienda per avere “offerto” alla lavoratrice in esecuzione dell’obbligo di
repechage l’unica mansione disponibile che era tuttavia a full time – avrebbe
integrato il motivo illecito (!) nonché il carattere esclusivamente
ritorsivo (e come tale discriminatorio: v. Cass. S.L. n. 6282/2011) e, quindi,
la nullità del licenziamento intimato, che rende applicabile a favore della
ricorrente la tutela reintegratoria prevista dal novellato art. 18 c. 1 della
legge n. 300/1970 avverso il licenziamento discriminatorio nonché riconducibile
ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo
illecito determinante ai senso dell’art. 1345 del codice civile”.
Anche tale pronunzia desta gravi perplessità perchè non solo pare utilizzare in maniera forzata il concetto di discriminazione e di motivo illecito e dall’altro paralizza di fatto l’applicazione del nuovo art. 18 per i licenziamenti economici, ampliando a dismisura e senza limite il concetto di motivo illecito e discriminatori, o potenzialmente invocabile in molte fattispecie di recesso.
Vedremo se tali pronunzie troveranno seguito, ma di certo gli inizi non sono dei migliori per le aziende.
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Sul piano processuale, invece, si segnala una pluralità di orientamenti di non facile coordinamento, tenuto conto della vaghezza di alcuni passaggi normativi e delle differenti applicazioni da parte dei diversi Tribunali in giro per l’Italia.
Come è noto, l’art. 1, c. 47 e s. della Riforma ha introdotto un rito sommario per le cause di licenziamento con la finalità di ridurre la durata delle controversie di lavoro. In questa prima fase applicativa questo effetto non solo non si è ancora verificato ma, a quanto pare, il nuovo rito ha contribuito ad aumentare la grande incertezza applicativa della normativa lavoristica e, in tal caso, delle disposizioni di cui alla Legge 92/2012. Ed infatti, differenti interpretazioni stanno emergendo rispetto alcuni aspetti molto rilevanti della nuova procedura e, in generale, circa l’applicabilità del nuovo art. 18.
Prima fra tutte
è la questione riguardante l’applicabilità
del nuovo art. 18 nelle cause promosse dopo l’entrata in vigore
della riforma, ma aventi ad oggetto licenziamenti intimati prima di tale data.
In questo caso, secondo la maggioranza dei Giudici, il regime sanzionatorio di
cui alla nuova disposizione dell’articolo 18, non avendo quest’ultima carattere
processuale ma sostanziale, si applicherebbe solo per i licenziamenti intimati
dopo il 18 luglio (v. Trib. Milano 14.11.2012; Firenze 17.10.2012; Trib. Mantova
28.09.2012; Trib. Monza 30.10.2012 Trib. Milano 8.10.2012 – contra v. Trib. Milano
22.10.2012 e 16.10. 2012), mente il rito sommario si applicherebbe a tutte le
controversie promosse da tale data, a prescindere dalla data di licenziamento.
Altra questione dibattuta concerne l’individuazione
di quali controversie rientrano nel rito sommario, in quanto la
legge assegna al rito tutti i licenziamenti rientranti nel campo dell’articolo
18, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione
del rapporto di lavoro.
Sul punto, un primo aspetto riguarda la sorte del giudizio, qualora emerga che
il datore di lavoro non rientri nell’art. 18 in quanto non ha più di 15
dipendenti. In tali ipotesi, secondo alcune sedi giudiziarie, la domanda diventerebbe
inammissibile, con conversione del rito sommario in rito ordinario (Trib.
Milano), secondo altre si applicherebbe comunque il rito sommario (Trib.
Padova) secondo altre ancora, la domanda sarebbe inammissibile senza
conversione del rito (Trib. Monza, Trib. Venezia).
Circa l’esatta individuazione delle controversie che rientrano nel rito speciale in quanto hanno per oggetto la “qualificazione del rapporto”, secondo il Trib. Milano, non rientrerebbero in questa definizione le controversie per le quali si chiede la costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze di un soggetto diverso da quello che formalmente è datore di lavoro (per esempio appalto, somministrazione). Infatti, secondo alcuni Giudici milanesi, la cognizione del rito Fornero riguarderebbe solo ed esclusivamente la “prosecuzione del rapporto di lavoro” e non altre domande (nemmeno domande relative al riconoscimento di un rapporto di lavoro con altro soggetto – interposizione soggettiva – e nemmeno l’accertamento del centro unico di imputazione di interessi nei gruppi di società).
Ancora, alcuni
Tribunali hanno qualificato come obbligatorio
il nuovo rito (Trib. Milano, Monza, Brescia, Bologna, Roma,
Reggio Calabria, Palermo), altri come “facoltativo”, ammettendo la possibilità
per il ricorrente di valutare come più utile un ricorso ex art. 414 cp.c.
quando l’impugnazione del licenziamento si associ ad ulteriori domande
(Trib. Firenze, Torino, Bari) e altri ancora hanno escluso che possa ancora
utilizzarsi il ricorso d’urgenza ex articolo 700 c.p.c. (Trib. Monza, Rossano,
mentre Bari è di parere opposto).
Infine, alcuni Tribunali assegnano, per raggiungere la massima rapidità del
primo step del processo, al medesimo Giudice
l’esame del ricorso sommario e dell’opposizione all’ordinanza
(Trib. Milano, Roma, Monza, Bologna, Genova). Di avviso contrario risultano i
Trib. Napoli, Ancona, Torino, Firenze e Bari.
Insomma un grande caos sotto il sole…
Anche qui staremo a vedere se ed in che misura si potrà raggiungere un minimo di unitarietà di orientamenti così da facilitare quella certezza del diritto di cui le aziende hanno disperatamente bisogno.