
Con una lunga motivazione con la quale i Supremi giudici hanno esaminato tutte le norme oggi in vigore il contrasto è stato risolto nel senso che «la speciale aggravante dell'art. 4 della legge 16 marzo 2006, n. 146, è applicabile al reato associativo, sempreché il gruppo criminale organizzato transnazionale non coincida con l'associazione stessa».
Insomma, quando l'associazione per delinquere «basti a se stessa», nel senso che i relativi associati o parte di essi ed il programma criminoso posto a fulcro del sodalizio realizzino il fatto-reato a prescindere da qualsiasi tipo di contributo esterno, ben può immaginarsi che, a tale condotta, altra (e autonoma) se ne possa affiancare, al fine di estendere le potenzialità e l'agere del sodalizio in campo internazionale. Ciò con la conseguenza che, ove questo tipo di contributo sia fornito da persone che in modo organizzato sono chiamate a prestare tale collaborazione, non potrà negarsi che il reato-base assuma dei connotati di intrinseca maggiore pericolosità, tale da giustificare l'applicazione della aggravante in questione. Il tutto, ovviamente, a prescindere dalla circostanza che il contributo offerto dal «gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato» renda, poi, quello stesso gruppo partecipe o concorrente nei reato associativo «comune», posto che è proprio quel contributo a rappresentare il quid pluris che giustifica la ratio aggravatrice, che non può certo ritenersi assorbita dalle regole ordinarie sul concorso nei reati. Dunque la Suprema corte ha reso definitiva la condanna a carico di due commercialisti romani accusati di frode fiscale, associazione per delinquere, applicando l'aggravante della transnazionalità. Nulla da fare neppure sul punto della confisca, misura confermata in sede di legittimità, dove il Collegio esteso ha ribadito che il profitto del reato non coincide con l'importo dell'imposta evasa, data la natura di reato di pericolo e non di danno della frode fiscale.
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