
In particolare la Suprema corte ha confermato la confisca per equivalente sui beni di un commercialista che aveva ideato l'evasione fiscale per conto di una società sui cliente. Per questo l'amministrazione finanziaria, visto che l'imposta evasa superava i 50 mila euro previsti dalla soglia di punibilità, ha emesso il provvedimento. I giudici lo hanno confermato precisando che le disposizione della legge sui delitti della p.a. concernenti il capo del codice dei delitti contro la p.a. non hanno mitigato i presupposti della confisca per equivalente che continuerà a essere applicata anche sul profitto del reato. Poiché, dunque, ai reati tributari sono applicabili entrambi i commi dell'articolo 322 ter c.p., la loro applicazione non costituisce interpretazione estensiva, per cui non si pone alcun problema di violazione del principio di legalità. D'altronde, il rapporto tra il primo e il secondo comma della norma non comporta, nel caso dei reati tributari, l'inapplicabilità di entrambi, giacché la differenza tra profitto e prezzo del reato (e quindi la sussistenza dell'uno e/o dell'altro) discende dalla natura del reato stesso e non si pone pertanto su un piano astratto ed esterno alla fattispecie criminosa (non sussiste infatti una norma che definisca la nozione di profitto del reato, locuzione utilizzata in maniera meramente enunciativa nelle varie fattispecie in cui è inserita, assumendo quindi un'ampia latitudine semantica da colmare in via interpretativa, occorrendo allo scopo non solo una correlazione diretta del profitto con il reato ma altresì una stretta affinità del profitto con l'oggetto del reato stesso. Né infine, concludono gli Ermellini, «porta alcuna incidenza interpretativa in senso contrario il recente intervento del legislatore sul primo comma dell'articolo 322 ter c.p., laddove le parole o profitto sono state inserite a chiudere appunto il suddetto comma dall'articolo 1 I. 6 novembre 2012 n. 190».