
Non sono deducibili e quindi non possono essere iscritti in bilancio come costi i crediti non riscossi dalle aziende in crisi prima della dichiarazione di fallimento o della loro chiusura definitiva.
È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con la sentenza n. 22135 del 29 ottobre 2010, ha respinto il ricorso di un'industria tessile che aveva iscritto in bilancio come costi dei crediti vantati verso alcuni clienti prima ancora della dichiarazione ufficiale di fallimento. In particolare la sezione tributaria ha chiarito che “in tema di imposte sui redditi d'impresa, l'art. 66, comma terzo, del dpr 22 dicembre 1986, n. 917, che prevede la deduzione delle perdite su crediti, quali componenti negative del reddito d'impresa, se risultano da elementi certi e precisi e, in ogni caso, se il debitore è assoggettato a procedure concorsuali, va interpretato nel senso che l'anno di competenza per operare la deduzione deve coincidere con quello in cui si acquista certezza che il credito non può più essere soddisfatto, perché in quel momento si materializzano gli elementi ‘certi e precisi’ della sua irrecuperabilità. Diversamente opinando si rimetterebbe all'arbitrio del contribuente la scelta del periodo d'imposta più vantaggioso per operare la deduzione, snaturando la regola espressa dal principio di competenza, che rappresenta invece criterio inderogabile ed oggettivo per determinare il reddito d'impresa. La prova della sussistenza degli elementi suddetti non impone né la dimostrazione che il creditore si sia attivato per esigere il suo credito, né che sia intervenuta sentenza di fallimento del debitore. In particolare nel caso di crediti verso società fallite, tale certezza può farsi coincidere con la declaratoria di fallimento ovvero della chiusura per le ditte debitrici”.
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