
Un licenziamento al rientro della maternità: cosa prevede la legge in questo caso? Scopriamolo con l'aiuto di una recente sentenza della Corte di Cassazione, intervenuta su un caso di licenziamento riconducibile a questo tema.
Licenziata dopo la maternità: cosa prevede la legge?
Secondo il d.lgs. 151/2001, la lavoratrice ha il diritto di riprendere il medesimo posto di lavoro occupato prima dell'assenza per maternità. In alternativa è possibile che la lavoratrice venga spostata in un'unità produttiva diversa, ma a patto che questa si trovi nello stesso comune dove era ubicato il precedente luogo di lavoro. Queste condizioni devono essere rispettate almeno fino al compimento di un anno del bambino. Inoltre anche la mansione svolta deve essere al pari o superiore rispetto a quella ricoperta prima dell'assenza, così come devono essere adeguati alle eventuali modifiche migliorative anche gli altri aspetti previsti dal contratto di lavoro. Una precisazione: abbiamo parlato di lavoratrici, ma il medesimo articolo di legge si applica anche nel caso di congedo per paternità. Fatta questa dovuta premessa, passiamo al caso concreto trattato dai giudici della Corte di Appello e di Cassazione.
Il licenziamento e la sentenza della Cassazione
Il caso specifico fa riferimento al licenziamento di una donna, che al rientro dal periodo di congedo per maternità, aveva ricevuto una proposta di trasferimento a 150 chilometri dalla sede del proprio impiego. In seguito al rifiuto della donna, il datore di lavoro aveva provveduto al licenziamento.
Prima di approdare alla Corte di Cassazione, già la Corte di Appello aveva ritenuto nullo il licenziamento, imputandolo ad un tentativo di discriminazione della lavoratrice. In particolare il tribunale aveva stabilito che la donna dovesse essere reintegrata al posto di lavoro originario e aveva chiesto inoltre il riconoscimento del danno, da commisurare al periodo di allontanamento dal lavoro.
L'atteggiamento discriminatorio dell'azienda è stato riconosciuto in modo particolare in quanto è stato dimostrato che, diversamente da quanto affermato, lo spostamento della dipendente non derivava da effettive necessità aziendali, in quanto successivamente erano state assunte altre persone nella sede nelle quale la donna era occupata originariamente.
La Corte di Cassazione ha quindi respinto il ricorso presentato dall'azienda, riconoscendo un effettivo intento di discriminazione nei confronti della lavoratrice licenziata. Di conseguenza il reintegro e il risarcimento del danno, dovranno essere riconosciuti così come previsto nella sentenza precedente.