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La condizione femminile nell'ordinamento giuridico italiano

del 21/06/2016

La condizione femminile nell'ordinamento giuridico italiano

Il 2 giugno 1946 i cittadini italiani di entrambi i sessi, maggiori di 21 anni, vennero chiamati alle urne per eleggere i componenti dell’Assemblea Costituente e per votare il referendum istituzionale che avrebbe stabilito se l’Italia sarebbe stata una nazione monarchica o repubblicana. Quella chiamata elettorale era straordinaria per più di un motivo - fra gli altri - venivano aperte le porte a una parte della popolazione che fino ad allora era stata esclusa: le donne. 

Fino alla fine del XIX secolo era largamente diffusa la convinzione che le donne non potessero partecipare alla vita politica a causa della loro caratteristica “emotività”, generatrice di turbamento nella gestione degli affari di stato.

Il diritto di voto per le donne fu conquistato con il decreto luogo-tenenziale del 1 febbraio 1945. Quel 2 giugno 1946 furono anche elette 21 donne, su 226 membri, della Costituente e per la prima volta esse goderono dell’elettorato attivo e passivo. Fino ad allora la condizione giuridica della donna era stata la seguente: non poteva accedere a molti ruoli della Pubblica Amministrazione (era esclusa dalla magistratura e dalla diplomazia, per esempio), era sempre sotto la patria podestà di un qualcuno (prima il padre e poi il marito), rischiava il licenziamento se voleva sposarsi, valeva meno dei suoi colleghi maschi (a parità di lavoro, le donne ricevevano un salario inferiore a quello degli uomini) e non aveva parità neanche all’interno della famiglia. L'influenza del diritto romano era pregnante.

Da quell'importante conquista, anche se furono necessarie annose battaglie, la strada per l'emancipazione giuridica della donna cominciò ad essere in discesa. Ad esempio è del 1956 la legge sulla parità retributiva tra uomo e donna, dal 1961 le donne poterono intraprendere, senza più ostacoli, la carriera della magistratura e della diplomazia, nel 1963 vennero dichiarate nulle le cosiddette clausole di nubilato dei contratti di lavoro, che molte donne erano costrette a firmare, riconoscendo loro il pieno accesso a tutte le professioni e agli impieghi pubblici, nel 1968, a seguito di una sentenza della Corte Costituzionale, venne abolito il reato di adulterio femminile.

Passando per il divorzio (legge 898/1970 e referendum del 1974) e per il diritto all'aborto (legge 194/1978), rimane forse significativa la riforma del diritto di famiglia avvenuta nel 1975, che modificò integralmente il codice civile. Con essa venne riconosciuta la parità giuridica dei coniugi, venne abrogato l'istituto della dote, venne riconosciuta ai figli naturali la medesima tutela prevista per i figli legittimi, venne istituita la comunione dei beni quale regime patrimoniale legale fra i coniugi (in mancanza di diversa convenzione), la patria potestà venne sostituita dalla potestà di entrambi i genitori. Retaggi tutti del diritto romano.

E poi ci sono le più recenti leggi per fermare la violenza: quella del 1996 che, tardivamente, configura il reato di violenza sessuale come reato contro la persona e non contro la moralità pubblica e stabilisce pene gravi, quella del 2009 che introduce il reato di stalking e quella contro il femminicidio.

Il bilancio però, a oltre sessant’anni dall’Assemblea Costituente, resta ancora amaro. Basti pensare al numero crescente di obiettori di coscienza che allunga i tempi per l’aborto o agli scarsi o nulli servizi di sostegno alla maternità. Ma il problema più drammatico resta il lavoro.

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