
La lite prendeva le mosse dalla compravendita di un immobile assoggettata all'Iva con l'aliquota del 4% (in luogo dell'aliquota ordinaria del 20%), in quanto la persona acquirente dichiarava nel rogito notarile di essere in possesso dei requisiti per l'agevolazione prima casa. Palese impedimento alla fruizione dell'agevolazione erano le stesse caratteristiche dimensionali dell'immobile trasferito, di superficie ampiamente eccedente il limite di 240 mq e pertanto qualificabile come abitazione di lusso. L'amministrazione finanziaria provvedeva a recuperare la maggiore Iva dovuta attraverso un accertamento spiccato nei confronti del solo acquirente. Quest'ultimo proponeva ricorso e sottolineava che, dovendo un immobile di lusso essere assoggettato all'Iva sempre e comunque con l'aliquota del 20%, il venditore non poteva cedere il bene con Iva agevolata, anche semplicemente in un'ottica di buona fede. La rettifica, dunque, doveva essere avanzata nei confronti del cedente, in quanto soggetto passivo nonché emittente della fattura con la relativa indicazione dell'Iva calcolata. Perentoria l'interpretazione della cassazione: «L'applicazione dell'aliquota ridotta non costituisce affatto un onere del venditore, ma solo un diritto soggettivo dell'acquirente, la cui fruizione è subordinata soltanto alla manifestazione (espressa nell'atto di acquisto) della sua volontà di beneficiare di quella riduzione: tale richiesta suppone necessariamente la dichiarazione dell'acquirente della sussistenza di tutte le condizioni necessarie». Il venditore, dal canto suo, in presenza di detta «dichiarazione» nell'atto pubblico, si trova nelle condizioni di «applicare l'aliquota ridotta, non avendo egli (in assolta carenza di specifico disposto normativo) nessun potere (dovere) di verificare la sussistenza delle condizioni». Ciò indipendentemente dal fatto che le stesse condizioni siano di palese evidenza.