
Il caso riguarda una nota azienda di software che aveva sostenuto dei costi con aziende commerciali domiciliate in paesi a fiscalità privilegiata (cosiddetti black list). L'impresa aveva operato la relativa deduzione ma il fisco aveva spiccato un accertamento di oltre due milioni di euro. Contro l'atto impositivo la spa piemontese aveva presentato ricorso alla commissione tributaria provinciale. Il giudice aveva revocato la rettifica del reddito notificata dall'amministrazione finanziaria. La decisione era stata poi confermata dalla commissione tributaria regionale. Così l'Agenzia delle entrate ha fatto ricorso in Cassazione ma ancora una volta senza successo. Nell'enunciare questo principio Piazza Cavour ne ha consolidato un altro secondo cui «all'amministrazione finanziaria è sufficiente invocare il divieto legale di deduzione, mentre spetta al contribuente dimostrare l'esistenza delle condizioni per cui esso non sarebbe applicabile al proprio caso. D'altra parte l'onere di provare la deducibilità di un costo spetta all'impresa anche quando la deduzione non è vietata in linea di principio».
Anche la Procura generale della Suprema corte, nell'udienza svoltasi lo scorso 8 novembre, aveva assunto una posizione intermedia chiedendo al Collegio di legittimità di accogliere solo alcuni motivi presentati dal fisco.
Debora Alberici