
La sentenza della Corte di giustizia Ue dello scorso 22 ottobre ha sancito che il bitcoin deve essere equiparato a tutti gli effetti a uno strumento di pagamento. Per questo motivo, cambiare una valuta in bitcoin, o viceversa, è da considerarsi come prestazione di servizi e, di conseguenza, esente dal pagamento dell’iva.
In realtà, lo scopo della sentenza dei giudici comunitari era quello di delimitare maggiormente il campo d’azione di chi lavora con i bitcoin. Per questo, la sentenza della Corte di giustizia si applica ai cosiddetti “Exchanger”, cioè coloro che cambiano bitcoin in valuta corrente (o viceversa) in cambio di un corrispettivo. Diverso è il contesto legislativo in cui si muovono i “miner” e gli utilizzatori finali. I primi, traducibili come “estrattori”, sono coloro che materialmente realizzano i bitcoin. La loro attività non può essere considerata come prestazione di servizi ma, piuttosto, come attività di produzione di beni – purché sia svolta in maniera continuativa – e, di conseguenza, soggetta alla tassazione come reddito d’impresa. L’aliquota iva cui viene assoggettata questa attività è quella comunemente applicata.
Diverso il discorso per gli utilizzatori finali: dal momento che il valore dei bitcoin, moneta virtuale, viene equiparata a una moneta estera, nel caso di scambi con intento speculativo i guadagni effettuati dovranno essere considerati come redditi diversi. Se, invece, i bitcoin vengono utilizzati nell’ambito di una permuta, previa verifica essi rientrano nel dpr 633/1972, articolo 11 comma 1, che recita: “Le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate in corrispettivo di altre cessioni di beni o prestazioni di servizi, o per estinguere precedenti obbligazioni, sono soggette all'imposta separatamente da quelle in corrispondenza delle quali sono effettuate”.