
Diritto al montante. È la legge 335/95, la cosiddetta riforma Dini, a dare alle casse previdenziali private il via libera al passaggio al sistema contributivo. Con un'ampia delega: gli enti privatizzati possono variare le aliquote contributive, riparametrare i coefficienti di rendimento o altri criteri di determinazione del trattamento. Ma anche con un paletto preciso: rispettare il principio del pro-rata in relazione alle anzianità già maturate. Altro che mero interesse di fatto al futuro assegno: la «posizione previdenziale» già maturata, spiegano gli “ermellini”, appartiene al patrimonio dell'assicurato come diritto al montante complessivo della contribuzione già versata; il che non implica certo che l'iscritto alla cassa abbia il diritto al calcolo della pensione secondo il criterio più conveniente per lui in vigore al momento del versamento dei contributi rispetto a quello vigente al momento del collocamento in quiescenza. Ma attenzione: questo non significa che il professionista abbia una semplice aspettativa alla pensione tanto che il legislatore ordinario potrebbe cambiarne liberamente i criteri di computo nell'esercizio della sua discrezionalità; esiste invece una soglia minima di trattamento che corrisponde alla posizione previdenziale già maturata nel corso della vita lavorativa, in base al criterio di corrispondenza «contribuzione contro prestazione». L'ammontare della contribuzione accumulata fino a un dato momento dall'assicurato, infatti, ha un suo valore economico in termini di rendita vitalizia: si tratta di una sorta di «maturato previdenziale» che non può essere sterilizzato dal legislatore. E anche il sistema pubblico ha questa soglia minimale di protezione che dipende da vari parametri, in primis dall'aspettativa di vita. La cassa paga le spese del giudizio.