
Il punto di domanda riguarda le informazioni richieste al riguardo e, soprattutto, il livello di «risposte» che saranno ritenute sufficienti. Potrebbero esservi, infatti, flussi monetari sui conti correnti che esulano dalla formazione del reddito, in quanto riferiti a componenti imputati per competenza o comunque estranei agli imponibili fiscali. Si pensi alle casistiche in cui gli incrementi del risparmio non derivano da emolumenti economici tassabili (rimborsi finanziamenti soci, vincite, donazioni ecc.), o ancora sono collegati a eventi precisi (ammortamenti o deduzione di costi pluriennali), oppure sono dovuti alla discrasia tra criterio di cassa e competenza o, infine, a redditi sottoposti a tassazione separata, imposte sostitutive. Il dubbio concerne la fase difensiva: posto che trattasi di un accertamento sintetico del reddito, dovrebbe essere sufficiente la dimostrazione delle complessive occorrenze finanziarie, senza dover andare nel merito di ogni singola movimentazione. Se il soggetto dell'esempio precedente dimostra di aver introitato 30 mila euro a titolo di rimborso assicurativo, disinvestimenti, eredità, donazione, si ritiene che null'altro debba essere chiesto sul fronte difensivo. Il rischio concreto, però, è che da parte dell'ufficio preposto vi sia la richiesta di documentazione bancaria dettagliata: e allora in questo caso si è innanzi a una vera e propria indagine finanziaria, che dovrebbe transitare per le relative procedure, in primis la necessaria autorizzazione gerarchica.
Insomma, sarà pur vero che il contribuente che non ha nulla da nascondere può anche decidere di portare il proprio conto corrente, ma non si comprende perché debba esporsi ad altre «intuizioni nefaste» da parte di chi è addetto al riscontro dei documenti, considerato soprattutto che le indagini finanziarie hanno l'ulteriore «perla», ancora non delimitata, secondo cui i prelievi, per i titolari di partita Iva, possono essere sospetti, con un'inversione dell'onere della prova ai limiti dell'assurdo. L'equivoco di fondo è rappresentato dal passaggio «asettico» della circolare n. 24 del 2013 che afferma come sia onere del contribuente provare la formazione della provvista. Si pensi all'acquisto di una vettura per 50 mila euro nel 2009: sarà sufficiente dimostrare che il contribuente ha già un saldo di conto corrente elevato al 31 dicembre 2008, pari a 60 mila euro, oppure bisognerà anche illustrare, in maniera analitica, il modo in cui si è formato il risparmio negli anni precedenti? Se così fosse si comprende come l'onere probatorio diventi diabolico, perché di fatto dovrà darsi corso a un'indagine finanziaria senza autorizzazione e su impulso del contribuente, il quale non solo dovrebbe produrre i propri conti, ma anche spiegare le relative movimentazioni. L'auspicio è che tali angoli possano essere smussati, nell'ottica di una proficua collaborazione tra fisco e contribuente.