
Lo afferma la Commissione tributaria regionale del Lazio, nella sentenza n. 287/39/2010 dello scorso 4 marzo.
La vertenza traeva origine da una ripresa effettuata nei confronti di una nota azienda esercente il commercio di motoveicoli nel Cassinate basata, in maniera prevalente, sulle risultanze degli studi di settore. I giudici provinciali avevano, di fatto, disapplicato gli studi di settore confermando però parzialmente la ripresa sulla constatazione che il reddito dichiarato dalla società non potesse comunque essere inferiore a quello corrisposto al proprio dipendente più «modesto».
La Commissione regionale del Lazio - sezione staccata di Latina - ha invece accolto l'appello del contribuente affermando un interessante principio di economia aziendale applicato al diritto tributario.
La censura operata dai giudici regionali alla sentenza appellata risiede nella circostanza che «esiste una differenza sostanziale tra la posizione di un lavoratore dipendente (fattore a remunerazione contrattuale) e una società imprenditore (fattore a remunerazione residuale); infatti il compenso di un lavoratore dipendente rientra tra i costi di gestione, è prioritario rispetto alla remunerazione residuale e sussiste anche se l'azienda chiude in perdita». Da questo discende l'illegittimità riscontrata dalla Commissione nell'effettuare un paragone tra le diverse posizioni reddituali dell'imprenditore e del dipendente, rideterminando l'una sulla base dell'altra. Il lavoratore dipendente, infatti, vanta una remunerazione legittimata dall'esistenza di un contratto, per cui egli percepisce - legittimamente - il proprio compenso anche se l'imprenditore non produce affatto utili.