
La sezione tributaria ha quindi accolto il ricorso dell'Agenzia delle entrate che aveva recuperato a tassazione 200 mila euro di Irpeg e Irap, sostenendo che la vendita fatta dalla società estera alla collegata italiana fosse stata fatta a prezzi troppo bassi.
L'impresa si era difesa sostenendo che il marchio dei beni alienati era appena stato creato e non ancora pubblicizzato, da qui lo sconto. Una motivazione, questa, sufficiente per ctp e ctr ma del tutto carente per la Cassazione che, ribaltando il doppio verdetto di merito ha invece accolto tutti i motivi del ricorso presentato dal fisco.
In particolare i Supremi giudici hanno chiarito che il cosiddetto transfer pricing costituisce, dal lato economico, un'alterazione del principio della libera concorrenza. E questo nel senso che transazioni tra società appartenenti ad uno stesso gruppo, ma con sede in paesi diversi, avvengono per prezzi che non hanno corrispondenza con quelli praticati in regime di libero mercato. Il fenomeno, quindi, dà luogo a uno spostamento di imponibile fiscale. E, pertanto, permette di sottrarre imponibile a stati con maggiore fiscalità. Cosicché, proprio allo scopo di preservare la esatta pretesa impositiva di ciascuno stato, sono state adottate normative nazionali predisposte a eliminare il fenomeno stesso del transfer pricing.
Le norme italiane, ecco il nodo della questione, prescindono dalla dimostrazione di una più elevata fiscalità nazionale. La disciplina rappresenta infatti una difesa più avanzata di quella direttamente repressiva della elusione. «Elusione che, per tale ragione, non occorre dimostrare». E questo, appunto, perché le leggi nazionali sono volte a reprimere il fenomeno economico in sé. Difatti, tra gli elementi costitutivi della fattispecie repressiva del transfer pricing non si rinviene quello della maggiore fiscalità nazionale. «Non occorre, si ripete, provare la elusione».
Spetta invece al contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova di cui all'art. 2697 c.c., dimostrare che le transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali ai sensi dell'art. 9, comma 3, dpr n. 917 del 1986.
Sul fronte della novità del marchio che giustificherebbe, a detta della difesa dell'impresa, il prezzo scontato la Cassazione ha invece precisato che non sono motivi sufficiente per rendere plausibile agli occhi dell'amministrazione finanziaria e della libera concorrenza un costo così ridotto. Anche la procura generale della Suprema corte ha chiesto di accogliere il ricorso del fisco.
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