
Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 19852 del 14 novembre 2012, ha accolto il ricorso incidentale dell'Agenzia delle entrate.
In particolare la sezione tributaria ha spiegato che mentre spetta all'amministrazione finanziaria dimostrare l'esistenza di fatti costitutivi della maggiore pretesa tributaria azionata, fornendo quindi la prova di elementi e circostanze a suo avviso rivelatori dell'esistenza di un maggiore imponibile, grava invece sul contribuente l'onere della prova sia in ordine all'esistenza dei fatti che danno luogo a specifici oneri e costi deducibili sia in ordine al requisiti dell'inerenza con l'attività professionale o d'impresa. D'altronde il ragionamento fatto dal Collegio di legittimità risponde al principio generale in tema di accertamento delle imposte sul reddito per cui l'art. 32 del dpr 29 settembre 1973, n. 600, nella parte in cui prevede l'invito al contribuente a fornire dati e notizie in ordine agli accertamenti bancari, non impone all'ufficio l'obbligo di uno specifico e previo invito, ma gli attribuisce una mera facoltà, della quale può avvalersi in piena discrezionalità. Da ciò deriva che il mancato esercizio di tale facoltà non può determinare l'illegittimità della verifica operata sulla base dei medesimi accertamenti, né comporta la trasformazione della presunzione legale posta dalla norma in esame in presunzione semplice, con possibilità per il giudice di valutarne liberamente la gravità, la precisione e la concordanza, e con il conseguente onere per il fisco di fornire ulteriori elementi di riscontro.
Il caso riguarda una grande azienda a partecipazione pubblica che aveva dedotto costi relativi a interessi passivi. Un'operazione appresa dal fisco nell'ambito di una verifica sul conto corrente bancario. Secondo la Cassazione questa documentazione è sufficiente per la ripresa a tassazione.