
Questo il principio indicato dalla Ctr Roma nella sent. n.662/14/11 .
Va rimarcato che il responso in commento appartiene ad una giurisprudenza spesso ondivaga, oscillante tra gli aspetti della reale «personalità» della condotta effettivamente sanzionabile e quello della «culpa in vigilando», ascrivibile comunque al contribuente .Nel caso di specie, l'esito del verdetto si fonda implicitamente intorno un aspetto processuale quale il principio dispositivo che regge il processo tributario ex artt. 7 ,comma 1, dlgs 546/92 e 115 c.p.c., imponendo l'assunzione delle decisioni nei limiti dei fatti dedotti, allegati e provati .
Il collegio d'appello – prendendo atto del silenzio istruttorio dell'appellante intorno le conseguenze della denuncia-querela presentata ben quattro anni prima della discussione innanzi la stessa Ctr – ha evidenziato che al corretto vaglio del giudice, qualora non pervenga notizia dell'esito del procedimento penale nei confronti del consulente, necessita l'acquisizione di detto documento introduttivo almeno per accertare, in termini di ragionevole probabilità, il nesso causale tra il comportamento del professionista e l'evento che ha sortito la pretesa tributaria.
Il collegio laziale, nell'occasione, ha rigettato altresì l'eccezione del contribuente sull'incompetenza territoriale dell'ufficio impositore, sottolineando che la capacità di emettere accertamenti è regolata da circolari – derogabili e non tassative – interne all'Agenzia, circostanza estranea alla legittimazione processuale di parte pubblica.
Così la Ctr adìta ha inteso riconoscere la regola secondo la quale l'amministrazione può organizzare con valenza meramente interna la propria attività sul territorio mediante proprie norme, derogabili dalla medesima amministrazione con altre norme interne del medesimo livello (es. circolari successive) ovvero anche con singoli atti amministrativi, comportanti eventualmente conseguenze per l'agente sul piano disciplinare, ma non sugli atti compiuti e i relativi effetti.