
Dal che discende che la corretta determinazione reddituale richiede l'obbligo di valutare qualsiasi elemento probatorio prodotto dal contribuente, con una «visione» estesa degli eventi che hanno consentito l'accumulo e disponibilità delle risorse finanziarie che sono state impiegate nell'acquisto di beni e servizi rilevanti. Da questo punto di vista, la medesima Agenzia delle Entrate ha costantemente ribadito che qualsiasi attività difensiva è utile allo scopo, come sottolineato dalla corposa circolare n. 49 del 2007, nonché nei recenti documenti di prassi n. 12 del 2010 e n. 28 del 2011, laddove è evidenziato che il contribuente può legittimamente fare ricorso ai risparmi accumulati nel tempo, così come devono essere considerati i reali redditi finanziari disponibili per il soggetto. Non di rado, purtroppo, detti documenti di prassi sono inapplicati, mentre si assiste al richiamo della «deleteria» sentenza n. 6813 del 2009 della Corte di Cassazione, secondo cui per giustificare l'accertamento sintetico possono essere utilizzati solo ed esclusivamente redditi esenti o soggetti a imposizione alla fonte, posizione più unica che rara assunta dai giudici di piazza Cavour e fortunatamente distante dal trend giurisprudenziale prevalente, secondo cui ogni dimostrazione delle occorrenze economiche è lecita in fase difensiva. Sul punto sembra aprirsi all'orizzonte uno spiraglio, improntato al principio fondamentale di cui all'art. 53 della Costituzione. Le anticipazioni dell'amministrazione finanziaria, infatti, vanno nella direzione di ribadire (e si spera che tale messaggio giunga forte e chiaro alle sedi periferiche), che in capo al contribuente deve ritenersi valido sin dal contraddittorio ogni elemento probatorio difensivo documentato e legittimo, quali ad esempio i costi figurativi dei titolari di reddito d'impresa (si pensi all'ammortamento o ad un costo pluriennale), la no tax area e la no tax family, altri abbattimenti forfettari e agevolativi (come la Tremonti ter), la restituzione di finanziamenti infruttiferi ai soci o all'imprenditore, i risparmi accumulati nel tempo, il disinvestimento di titoli, azioni. A fronte della commentata apertura interpretativa purtroppo è stata anticipata anche una soluzione assolutamente inaspettata e contraria a quanto conosciuto finora in ordine alla modalità con cui calcolare lo scostamento tra il reddito accertato e quello dichiarato, attualmente fissato nella misura del 20% annuale e nel passato stabilito nella misura del 25% in almeno due annualità, anche non consecutive. In base a quanto affermato in via informale lo scostamento secondo il fisco deve essere calcolato sul reddito dichiarato, soluzione penalizzante per il contribuente: in pratica, se un soggetto dichiara un reddito di 82, già 100 è sufficiente per accertare, in quanto supera di più del 20% l'importo dichiarato di 80. Se invece, come la stesura della norma lascia intendere, il calcolo si effettua sul reddito accertato, ossia su 100, la diminuzione del relativo 20% comporta che il reddito dichiarato «attaccabile» deve essere non superiore a 80 e pertanto nel nostro esempio il soggetto non potrebbe essere sottoposto a redditometro. Sul punto l'amministrazione finanziaria afferma che tale interpretazione è speculare a quella del passato ma così non è, sia perché nei vecchi formulari inviati ai contribuenti ad inizio anni 90 si precisava il contrario sia in quanto l'unico documento ufficiale che finora si è espresso sul punto, vale a dire la relazione Secit del 31 ottobre 1993, chiaramente stabilisce, al paragrafo 5.5, lettera b), che lo scostamento percentuale debba essere calcolato sul reddito accertato. L'agenzia aggiunge che comunque la modalità con cui calcolare lo scostamento è un falso problema, in quanto saranno valutate le posizioni con scostamenti rilevanti: se questo è vero, però, sembra che si sia volutamente sottovalutata l'applicazione di tale interpretazione per il passato.