Al giudice ordinario la causa fra ordini dei dottori commercialisti relativa al diritto di uno dei due enti di una somma corrispondente alla quota, proporzionale al numero degli iscritti, del patrimonio del vecchio ordine della Capitale. È quanto affermato dalle s.u. civili della Cassazione che, con la sentenza 15236 di ieri, hanno affermato, in fondo alle motivazioni, che «compete al giudice ordinario la cognizione della causa, vertente fra due ordini dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, relativa alla spettanza a uno dei due enti di una somma corrispondente alla quota, proporzionale al numero dei suoi iscritti, del patrimonio del soppresso ordine dei commercialisti, al quale in precedenza appartenevano anche i suddetti iscritti». Il caso riguarda una diatriba nata fra l'Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili di Roma e quello di Civitavecchia. Quest'ultimo ha citato di fronte il Tribunale della Capitale il primo chiedendo, in virtù del dlgs 139 approvato nel 2005, oltre 97mila euro. In particolare secondo la difesa tale ordine aveva diritto a una quota, proporzionale al numero degli iscritti, del patrimonio del soppresso ordine romano (quest'ultimo costituito da professionisti che prima appartenevano all'ente scomparso e avevano concorso alla formazione del suo patrimonio con il versamento del contributo). I commercialisti citati in causa avevano eccepito il difetto di giurisdizione chiedendo che la causa fosse affidata al Tar. A questo punto la vicenda è finita sul tavolo del Massimo Consesso di Piazza Cavour. La Sezioni unite civili della Suprema corte hanno respinto il ricorso dichiarando la giurisdizione dell'Ago. Infatti, ha precisato il Collegio esteso, la controversia ha un oggetto patrimoniale, «in ordine al quale nessuna norma attribuisce poteri di supremazia all'uno o all'altro dei soggetti coinvolti né a una diversa amministrazione». In altri termini non può essere considerato come atto autoritativo la risposta negativa data dall'ordine romano a quello di Civitavecchia. Dunque, non so tratta di un interesse legittimo, scrive Piazza Cavour, ma di un vero e proprio diritto soggettivo data anche «l'assenza di una qualche regolamentazione di carattere pubblicistico della materia oggetto della controversia».