
Il caso di recente trattato
dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14979/2013 - dove è stata
confermata la condanna ad un anno di carcere, per omissione di atti d'ufficio,
con interdizione dall'esercizio della professione medica, ad una dottoressa di
un presidio ospedaliero in provincia di Pordenone - riguarda un medico di
guardia il quale la sera in cui la paziente ha abortito, si era rifiutata di
visitare e assistere la donna, nonostante le richieste di intervento
dell'ostetrica che temeva un'emorragia. Nemmeno dopo i successivi ordini di
servizio, impartiti telefonicamente dal primario e dal direttore sanitario,
l'aveva visitata.
Tanto che il primario era dovuto andare in ospedale per
intervenire d'urgenza. In base ad una interpretazione estensiva della legge
(l'articolo 9 della legge 194 sull'aborto), il medico aveva opposto che
l'obiettore di coscienza è esonerato dall' intervenire in tutto il procedimento
di interruzione volontaria di gravidanza, compresa la fase di espulsione del
feto, fino all'espulsione della placenta. E questo la sua difesa ha opposto nel
ricorso contro la sentenza di condanna emessa nel dicembre scorso dalla Corte
d'Appello di Trieste.
Nella sentenza depositata nei giorni scorsi, la sesta sezione penale della
Cassazione spiega correttamente, invece, che la 194 "esclude che
l'obiezione possa riferirsi anche all'assistenza antecedente e conseguente
all'intervento, riconoscendo al medico obiettore il diritto di rifiutare di
determinare l'aborto (chirurgicamente o farmacologicamente), ma non di omettere
di prestare assistenza prima o dopo ‘in quanto deve’ assicurare la tutela della
salute e della vita della donna, anche nel corso dell'intervento di
interruzione di gravidanza".
Quindi il diritto di obiezione di coscienza "non esonera il medico dall'intervenire durante l'intero procedimento". In sostanza "il diritto dell'obiettore affievolisce, fino a scomparire, di fronte al diritto della donna in imminente pericolo a ricevere le cure per tutelare la propria vita e la propria salute". Giudicando sul caso, la Corte ha ritenuto "pienamente integrato" il reato dal momento che l'imputata ha "rifiutato un atto sanitario, peraltro richiesto con insistenza da personale infermieristico e medico, in una situazione di oggettivo rischio per la paziente".