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Italia, i conti non tornano più

del 18/09/2010
di: di Marino Longoni
Italia, i conti non tornano più
Un paese sull'orlo del baratro. È questa l'immagine che l'Italia trasmette a chi inforca le lenti del commercialista e prova a spulciare i dati del bilancio dello Stato. Ci ha provato Claudio Siciliotti, presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti. Il risultato è il libro che viene presentato oggi a Capri. Il titolo è: Dare e avere.

Se si prendono in esame gli ultimi 30 bilanci dello Stato italiano si rimane colpiti da un fatto: le spese superano sempre le entrate. Alla chiusura di ogni bilancio si è sempre registrato un deficit, invariabilmente. Erano 14 miliardi nel 1980, sono 80 miliardi nel 2009. Non tutti i deficit sono uguali, si nota infatti uno sforzo di contenimento negli anni che vanno dal 1992 al 2000 (minimo storico: quell'anno le spese hanno superato le entrate solo di 10 miliardi di euro); ma dal 2001 si è ripreso a spendere in tutta allegria: in ogni caso ogni anno il debito pubblico del paese cresce in modo inarrestabile.

Il 1993 è stato un punto di svolta. Quell'anno il debito pubblico, arrivato alla stratosferica quota del 115,66% del pil, ha rischiato di mandare il default il paese. Il governo Amato fu costretto a intervenire con una manovra lacrime e sangue da 93 mila miliardi di lire. La paura fu tanta. E per qualche anno la spesa pubblica subì un rallentamento. Ma dopo il 2000 tutto era già stato dimenticato. L'ultimo dato disponibile, quello del 2009 mostra un rapporto debito/pil del 115,77%. Superiore a quello del 1992. Con la differenza che in valore assoluto allora il debito era di 850 miliardi di euro. Ora è arrivato a 1.760 miliardi.

Con la Finanziaria d'estate da 25 miliardi di euro il governo ha cercato di correre ai ripari: l'obiettivo è di ridurre il deficit sotto il fatidico 3%. Un target ambizioso che se venisse raggiunto consentirebbe al debito pubblico di aumentare solo di 50 miliardi l'anno.

Il problema vero è che il parametro del 3% fu imposto dal trattato di Maastricht in un momento in cui si dava per scontata una crescita economica almeno del 5%, in grado quindi di assorbire ampiamente il deficit in eccesso. Oggi le cose sono diverse. Il tasso di crescita all'1,5% è considerato già un successo.

Certo lo scenario politico internazionale è cambiato, e vale il principio che, «mal comune, mezzo gaudio». Ma se si cerca di ragionare sui numeri in tutta la loro crudezza è difficile essere ottimisti.

Anche perché non ci sono molti margini di manovra. Le svalutazioni competitive della lira sono un lontano ricordo. La pressione fiscale è a livelli tali che non può più essere innalzata: nel 2009 il rapporto tra entrate fiscali e pil ha infatti toccato il 43,19%. E si tratta del dato ufficiale. Se si va a depurare questi numeri di tutta l'economia sommersa, le cose stanno ancora peggio. Il «nero» in Italia è stimabile tra il 22,3 e il 17,4% del pil. Anche utilizzando il dato più ottimistico, elaborato dall'Istat, se togliamo questo valore dal totale del pil e calcoliamo quante tasse pagano quelli che le tasse le pagano si arriva al 52,31 del pil (non sommerso). Un dato che fa rabbrividire e non consente margini di manovra al ministro dell'economia di turno. Il recupero graduale del debito pubblico, in queste condizioni, è quindi possibile solo il presenza di una forte crescita economica: ipotesi che nel breve e medio periodo fa solo sorridere.

E allora? Il governo presentava alla camere il 30 giugno 2010 la relazione di accompagnamento al primo decreto legislativo sul federalismo fiscale, nella quale si legge che «la nostra è stata una democrazia del deficit, in cui il debito pubblico, via via che cresceva, abrogava quote reali di democrazia, drogando la vita politica con la meccanica illusoria tipica della cambiale mefistofelica, del pagamento messo a carico delle generazioni future». Si potrebbe tranquillamente sostituire i verbi al passato con il tempo presente, perché nulla è cambiato. Finora. Nei prossimi mesi il paese comincerà ad affrontare la scommessa del federalismo fiscale, che comporterà la necessità di ridisegnare i rapporti tra le istituzioni nell'ottica di una maggiore responsabilizzazione dei centri di spesa, grazie anche al meccanismo dei costi standard, che dovrebbe innalzare la qualità della spesa delle regioni più avvezze agli sprechi.

Alcuni sostengono però che, soprattutto nel breve periodo, il federalismo potrebbe aumentare e non diminuire il costo della macchina pubblica a causa della moltiplicazione dei centri di responsabilità, quindi di spesa.

Siciliotti non lo dice mai e fa uno sforzo notevole per condire i numeri con ottimismo e buona volontà, ma a essere realisti non si può negare che siamo sull'orlo del baratro.

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