
Tornando alle motivazioni, «non esiste», si legge in un passaggio, «la sconfinata prateria di internet, dove tutto è permesso e niente può essere vietato, pena la scomunica mondiale del popolo del web. Esistono invece leggi che codificano comportamenti e che creano degli obblighi che, ove non rispettati, conducono al riconoscimento di una responsabilità penale». Nel motivare la condanna il giudice Magi scrive poi che «l'informativa sulla privacy era del tutto carente o comunque talmente nascosta nelle condizioni generali del contratto da risultare assolutamente inefficace per i fini previsti dalla legge». E, ancora, il giudice sottolinea che «Google Italy trattava i dati contenuti nel video scaricati sulla piattaforma e ne era responsabile quindi perlomeno ai fini della legge sulla privacy». Responsabilità tutte italiane? Non proprio. «Non vi e' dubbio che perlomeno parte del trattamento dei dati immessi a Torino sia avvenuto fuori dall'Italia, in particolare negli Usa, luogo dove hanno indubitabilmente sede i server (cioè le macchine che trattano e immagazzinano i dati) di proprietà di Google Inc».
«Stiamo leggendo le 111 pagine del documento di motivazioni del giudice tuttavia, come abbiamo detto nel momento in cui la sentenza e' stata annunciata, questa condanna attacca i principi stessi su cui si basa Internet. Se questi principi non venissero rispettati, il Web così come lo conosciamo cesserebbe di esistere e sparirebbero molti dei benefici economici, sociali, politici e tecnologici che porta con sé. Si tratta di importanti questioni di principio ed è per questo che noi e i nostri dipendenti faremo appello contro questa decisione», scrive Google in una nota in merito alle motivazioni della sentenza. «Sono passati quasi due mesi dalla sentenza del tribunale di Milano e ancora non risulta che i vertici del provider Google abbiano preso delle iniziative per rendere il motore di ricerca più sicuro», sottolinea invece il presidente del gruppo Pdl al Senato, Maurizio Gasparri. «Trovai all'epoca esemplare», dice, «la sentenza, non solo perché nessuno aveva vigilato abbastanza per impedire che quel filmato shock fosse messo in rete, ma soprattutto perché nessuno aveva collaborato per rimuovere quei contenuti violenti in maniera tempestiva. Dopo le decisioni del tribunale, resta il grande silenzio di Google che non si è chiaramente espressa con delle iniziative o nuovi strumenti a tutela degli utenti contro la diffusione incontrollata di contenuti violenti. Resta certamente», conclude Gasparri, «un vuoto normativo al quale va comunque posto rimedio. Ma nell'attesa ci saremmo aspettati da un'azienda nota come Google maggior senso della responsabilità e qualche iniziativa che potesse dimostrare la buona fede di allora dei vertici».