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Antieconomicità: rischio impresa, spia per il fisco

del 24/08/2012
di: di Stefano Loconte
Antieconomicità: rischio impresa, spia per il fisco
Il fisco non va in ferie e non lascia andare in ferie i professionisti. In queste settimane, infatti, negli studi sono piombati avvisi di accertamento a pioggia sulle questioni e dagli importi più disparati. Nessuna particolare campagna mirata tipo redditometro o studi di settore, ma solo un fisco che mostra i muscoli e batte cassa. Gli importi degli accertamenti crescono e anche per quelli più piccoli arriva come motivazione, nuova rispetto al passato, quella dell'abuso di diritto unitamente alla contestazione della tenuta di comportamenti antieconomici.

Le partite di questi avvisi di accertamento recapitati prima della pausa estiva si giocheranno tutte in autunno, valutando la loro natura di atti immediatamente esecutivi, per i quali occorrerà versare, anche in presenza di ricorso, una somma pari a un terzo di quella richiesta. Pena le azioni esecutive per il recupero del credito preteso dall'amministrazione finanziaria, salvo l'effetto di un provvedimento cautelare eventualmente concesso dal giudice tributario tempestivamente adito. In particolare, secondo l'amministrazione finanziaria, devono considerarsi non inerenti tutti gli atti manifestamente antieconomici, che determinino cioè costi sproporzionati rispetto ai ricavi e/o all'utile dell'impresa. L'antieconomicità si può concretizzare sia con un ammontare eccessivo di componenti negativi sia con l'immotivata compressione di componenti positivi di reddito. Gli atti così caratterizzati sono da considerarsi, a parere dell'Agenzia, sintomatici di finalità extraimprenditoriali, e in particolare di indebita sottrazione di materia imponibile senza valida giustificazione.

Tale elaborazione viene fondata sulla considerazione in base alla quale, chiunque svolga un'attività economica è indotto a ridurre i costi o a massimizzare i ricavi, a parità di tutte le altre condizioni. Diversamente, in presenza di un comportamento non adeguatamente giustificato sul piano razionale, sarebbe legittimo concludere che l'incongruenza sia soltanto apparente e che dietro di essa si celi, in realtà, una diversa volontà. Da tale considerazione, l'amministrazione fa discendere, in tema di accertamento del maggior reddito, il suo potere di disconoscere la valutazione economica dei componenti positivi e negativi di reddito operata in bilancio o risultante da atti o negozi giuridici, a prescindere dall'accertamento della simulazione di tali atti, pur in presenza di una contabilità formalmente corretta.

In particolare, poi, sempre secondo gli accertatori, con il termine di «antieconomicità» si sintetizza il concetto di incongruità e incoerenza logica sotto il profilo logico di un'operazione d'impresa, in quanto la regola alla quale si ispira chiunque svolga un'attività economica è quella di ridurre i costi e aumentare i profitti atteso che l'antieconomicità di una attività viene altresì valutata nel raffronto tra gli utili conseguiti e la quantità e qualità dei fattori produttivi impiegati. Il divieto di porre in essere atti antieconomici sarebbe contenuto nel più generale divieto del cosiddetto «abuso del diritto» che rappresenterebbe un principio generale antielusivo presente nel nostro ordinamento di diretta fonte costituzionale nonostante non sia mai stato codificato dal legislatore. Da esso deriverebbe il generalizzato divieto di porre in essere operazioni elusive prive di valide ragioni economiche, dirette ad aggirare obblighi o divieti previsti dall'ordinamento tributario e a ottenere riduzioni di imposte o rimborsi altrimenti indebiti.

Appare evidente la pericolosità di un tale tipo di ragionamento in questo particolare momento storico che vede la stragrande maggioranza di coloro che svolgono attività d'impresa e di lavoro autonomo subire le gravi e ripetute perdite derivanti dalla persistente crisi economica. Parimenti, appare decisamente fuorviante effettuare la valutazione della congruità di un investimento (e, quindi, di un costo) a posteriori e, per l'effetto, considerare non inerenti e non deducibili tutti quegli investimenti che, per un qualsiasi motivo, possano non aver generato un reddito e, quindi, essere risultati antieconomici. Così ragionando si arriva all'assurdo di snaturare il presupposto dell'attività d'impresa che vede nel cosiddetto «rischio d'impresa» la sua maggiore caratterizzazione; un rischio che l'amministrazione finanziaria riterrebbe di accollare solo in capo all'imprenditore non consentendogli la deduzione di tutti quei costi che si sono rilevati non produttivi di reddito e per i quali, quindi, il medesimo imprenditore ha già subito la perdita economica e finanziaria rappresentata dall'investimento sbagliato o non opportuno. Ancora una volta il contribuente dovrà contare sull'essenziale apporto dei giudici tributari (ai quali non mancano le caratteristiche per adempiere a tale incombente) al fine di mitigare la posizione dell'amministrazione finanziaria.

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